Intervista a Mirko Tondi
CONOSCIAMO L'AUTORE DI "ERA L'11 SETTEMBRE"
Benvenuto Mirko.
Chi sei? Cosa fai? Dove vai?
Chi sono? Una domanda con la quale a quarantatré anni faccio ancora i conti. Tuttavia, penso che oggi possa considerarmi piuttosto vicino ad aver definito la mia identità: ho fatto per quindici anni l'educatore (nei settori del disagio minorile, tossicodipendenze, psichiatria e immigrazione), ma da qualche tempo ormai svolgo la professione di insegnante nel contesto della formazione professionale (in parte come sostegno e in parte come docente della materia Alternativa, affrontando con i ragazzi un percorso sui diritti umani). Poi c'è l'altra metà di me, quella che in realtà non riposa mai: lo scrittore.
Difficile definirsi scrittore in quanto professionista, del resto è e rimane una smisurata passione (e non so se lo sarebbe ugualmente in caso lo facessi come lavoro...), ma mentirei se dicessi che non ambisco a essere letto da un numero sempre più ampio di persone.
La mia risposta alla domanda "dove vai?" infatti è questa: sto ancora facendo la gavetta, ma cerco di salire un gradino alla volta, sempre più in alto, fino a che un giorno, spero, possa quantomeno non rimproverarmi di averci provato.
Come ti sei approcciato alla scrittura?
Beh, il fatto è che fino a che non ho concluso gli studi universitari non sapevo che mi piacesse scrivere, e a dire il vero ero anche un lettore piuttosto pigro e discontinuo. Poi, quando stavo frequentando il tirocinio di Psicologia, mi rimaneva del tempo per fare dei corsi e così scelsi sceneggiatura cinematografica. Il cinema è un'altra delle mie grandi passioni, ma non mi sentivo portato per la regia; così decisi di dare un'occhiata a cosa succedeva dall'altro lato della barricata, là dove i film, prima di arrivare sullo schermo, diventano dei testi. Cominciai a scrivere qualche soggetto, poi dei corti, qualche idea per lungometraggio e gradualmente mi ritrovai a sperimentare anche altre forme: copioni teatrali, poesie, racconti e infine romanzi. Oggi non mi capita quasi più di scrivere sceneggiature (si tratta infatti di una scrittura molto tecnica), perché negli anni sono diventano molto più disordinato come scrittore, e infatti faccio fatica a stare nei ranghi di un genere codificato o di una forma prestabilita.
Sei uno scrittore prolifico, soprattutto di racconti e romanzi brevi. Che cosa ti attrae della forma narrativa breve? Pensi che oggi, in questa società veloce, spesso anche troppo, il racconto sia più vicino ai possibili lettori?
Come scrittore, e come persona in generale, ciò che mi piace di più è spaziare, non fermarmi mai a qualcosa di catalogabile e a uno stile preciso. Finora, non dovendo sottostare ai dettami di una casa editrice tra le major, ho sempre scritto il libro che in quel momento avrei voluto scrivere, passando dal noir all'umoristico, dal fantastico fino all'autobiografia o all'autofiction. Cerco di mantenere la continuità nei libri che pubblico, in maniera da far circolare sempre il nome, ma nel far questo cerco anche di guardarmi intorno avviando nuove collaborazioni. Sì, la forma del racconto è quella che alla fine torna sempre nella mia produzione. Ho da poco composto la mia quinta raccolta, e comunque anche quando mi approccio al romanzo mi capita di concentrare il tutto nell'arco di un numero di pagine abbastanza contenuto. La mia forma mentis è quella: sono un narratore di storie brevi.
Quando imbastisco strutture per romanzi corposi, inevitabilmente mi perdo. Il grande vantaggio del racconto è la possibilità di condensare la trama in un unico o pochi episodi, e il tutto si esaurisce nel giro di un quantitativo limitato di battute; le sessioni di scrittura poi, per quanto mi riguarda, sono più intense, e anche il fatto che tu possa vedere un'opera finita dopo un periodo ristretto di tempo penso che dia una certa carica positiva: il mio problema più in generale, infatti, è proprio quello di non riuscire a finire ciò che inizio.
La scrittura è l'unica attività che mi consente di invertire la tendenza. Un altro vantaggio del racconto è che ti consente l'opportunità di sperimentare e di sbagliare, ma anche di prendere a modello i tuoi autori di riferimento per provare a imitarli o ancora ti permette di confrontarti con generi che ti sono ostili ma che, per qualche ragione, intendi approfondire.
Rispetto all'ultima parte della domanda, mi piacerebbe rispondere che sì, tutto oggi è più veloce, e proprio per questo il racconto è stato rivalutato dai lettori. Paradossalmente, invece, le storie brevi sono davvero poco commerciali nel nostro Paese, dove al contrario abbiamo una tradizione gloriosa in questo senso: come dico sempre, abbiamo avuto scrittori come Buzzati, Calvino, Moravia, Sciascia, Parise, Scerbanenco e tanti altri che hanno fatto del racconto una vera e propria arte, e allora perché oggi non siamo più in grado di valorizzarlo come merita?
Credo che nel contesto anglosassone sia un po' diverso, e infatti mi capita spesso di scoprire nuove voci proprio nell'ambito delle short stories (mi vengono in mente Jennifer Egan, Elizabeth Strout, George Saunders, Chris Offutt, ma anche gli ormai compianti Lucia Berlin e Denis Johnson). Tuttavia negli ultimi anni ho visto in Italia la fioritura di nuove riviste che danno spazio agli emergenti per pubblicare i propri racconti, certo passando attraverso una doverosa selezione: questo mi fa ben sperare.
Passiamo a "Era l'11 settembre", volume edito da NPS Edizioni. Come è nato questo lavoro?
Un giorno stavo parlando con un parente di mia moglie, un signore anziano a cui era da poco morta la figlia poco più che quarantenne; anche lui se ne andò nel giro di pochi anni. Ma in quel momento esatto, fissando i suoi occhi malinconici, immaginai l'abisso nel quale si può sprofondare per un simile dolore, e così nacque lo spunto del libro. Anche questo, nel bene e nel male, è ciò che fa uno scrittore: attingere da ciò che gli succede attorno, fino a entrare nelle vite degli altri e, in qualche modo, farle proprie, tramutandole in storie.
Quali sono, a tuo dire, i valori e i messaggi principali dell'opera?
L'elaborazione del lutto è un argomento importante nel libro, ma non è l'unico. L'amicizia, sicuramente. Ma più in generale direi l'empatia e la capacità di stabilire una sintonia con qualcuno: i rapporti umani sono tutto. Ho cercato poi di trasferire al lettore, attraverso varie divagazioni e riflessioni esistenziali, il concetto che gli interessi e le passioni possono davvero salvarti la vita: non so se ci sono riuscito...
Infine, mi premeva anche far arrivare quanto possa essere devastante l'ossessione, che annulla le esistenze, senza alcuna distinzione intellettiva o di status.
Ti sei mai ritrovato nella situazione del ghostwriter del libro? Hai mai stabilito un dialogo intimo con un personaggio da te creato, al punto da imparare qualcosa da lui? O di scoprire qualcosa di te?
Ho fatto lavori di editing e qualche volta mi è stato proposto anche di fare il ghost-writer, ma in quest'ultimo caso non ho mai accettato: si trattava di libri molto distanti dai miei gusti letterari e dal mio stile di scrittura, ho preferito non imbarcarmi in imprese che probabilmente non sarebbero riuscite con i risultati sperati. Riguardo alle altre domande, credo che nel processo di scrittura si scopra sempre qualcosa di sé che non sapevamo o che credevamo di non sapere.
Ricordo che quando scrissi il romanzo "Nessun cactus da queste parti" (Il Foglio Letterario, 2016), c'era questo dialogo continuo con il personaggio. Per cominciare, lessi o rilessi una discreta quantità di testi di Shakespeare solo perché al protagonista piaceva, ma anche io adoro il Bardo; qualche altra volta invece eravamo in disaccordo con i nostri reciproci gusti: per esempio, a lui piacevano i Genesis prima maniera, a me invece quelli con Phil Collins alla voce. Fu divertente confrontarmi continuamente col personaggio che io stesso avevo creato.
Regalaci un consiglio di lettura per affrontare l'autunno.
Spero che nei prossimi mesi possa uscire in Italia la biografia di uno dei miei autori preferiti, Philip Roth, scritta da Blake Bailey. Credo poi che presto leggerò "Yoga", il nuovo libro di Emmanuel Carrère, un altro dei miei massimi riferimenti.
Infine, per quanto riguarda gli autori italiani, visto che non leggo mai subito i premi Strega ma lascio sempre decantare il tutto per qualche mese (mi è successo pure lo scorso anno con "Il colibrì" di Sandro Veronesi), suppongo che il romanzo di Emanuele Trevi, "Due vite", possa considerarsi un titolo interessante per le prossime settimane.
Stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Quello sempre. Forse troppi contemporaneamente. Come detto, c'è una raccolta di racconti che forse pubblicherò, e poi un piccolo noir che al momento è in valutazione. Oltre a scrivere saltuariamente qualche altro racconto breve, mi sto dedicando alla mia autobiografia (sarà un lavoro molto lungo e paziente di ricostruzione dei ricordi), a una sorta di manuale di scrittura che prevederà anche delle illustrazioni e poi ci sarebbe un progetto sulla Resistenza per il quale ho già cominciato a raccogliere materiale; anzi, colgo l'occasione per segnalare che sono alla ricerca di storie e testimonianze sui partigiani, non si sa mai che qualcuno possa essere interessato a raccontarmi le vicende di un suo parente, di qualche persona che gli è capitato di conoscere o di cui ha solo sentito parlare.
Grazie per essere stato con noi.